Il risultato delle elezioni amministrative e soprattutto dei referendum ha rappresentato un vero e proprio terremoto del quadro politico. L’indignazione italiana si è espressa con una partecipazione massiccia e una voglia di sanzionare il governo Berlusconi. Quella che abbiamo di fronte, lo vogliamo dire nettamente, è una domanda di democrazia e di futuro che si esprime in forme diverse, certamente con limiti, contraddizioni, possibilità di rinculo e di delusione. Particolarmente importante la vittoria referendaria, che ha mostrato una forte partecipazione dal basso – favorita dai nuovi mezzi di comunicazione, ma che ha saputo utilizzare quelli tradizionali (passaparola) e che si è espressa molto oltre i confini dei partiti (soprattutto il PD che in un primo momento ha cercato di frenare la spinta referendaria). La difesa del pubblico contro il privato, agita con così netta determinazione e da una fetta di popolazione che trascende lo stesso elettorato del centrosinistra, è la prima risposta collettiva alla crisi e mostra la consapevolezza di un sistema alle corde. Da qui a dire che un’alternativa è alle porte ce ne corre (l’ideologia del “privato è bello” è solo incrinata e non è ancora idea alternativa di “pubblico”). L’alternativa rischia piuttosto essere ancora una volta il Pd e centrosinistra, che non rappresentano evidentemente un’alternativa al capitalismo.
Il terremoto che si è prodotto è allo steso tempo effetto e causa della crisi di Berlusconi e del berlusconismo; per quanto possa tirare avanti e cercare di mascherare la propria crisi, il messaggio di Berlusconi non ha più presa e la natura intima del suo progetto politico – difendere gli interessi personali e di “clan” – è al capolinea. Di più, Berlusconi ha indignato gran parte dell’opinione pubblica, che si è mostrata nelle diverse manifestazioni dallo scorso dicembre e dall’alta percentuale di votanti donne e giovani il 12 e 13 giugno lo dimostra. La stessa borghesia si sta preparando a cambi del quadro politico, anche perché la crisi economica porterà nuove “lacrime e sangue”, e i settori confindustriali hanno bisogno di un equilibrio maggiore e di forze politiche capaci di garantire quel consenso che oggi Berlusconi non sembra più in grado di garantire. Il quadro politico oggi mostra così una destra in crisi - anche se il suo spazio resta grande e non va sottovalutato, ma il suo futuro dipenderà dalle capacità di determinare un dopo-Berlusconi – e un Pd che con grande spregiudicatezza e grazie ad una serie di circostanze favorevoli, riesce a sfruttare gli effetti positivi della partecipazione di questi mesi, presentandosi come vincitore delle elezioni e determinante per la vittoria referendaria. Naturalmente non cambia la sua natura di classe e il suo progetto politico e prima o poi dovrà dire cosa vuol fare sul piano dei beni comuni, dell’economia, del lavoro – anche se i progetti antipopolari di Mario Draghi neo commissario europeo sono in sintonia con il centrosinistra italiano. Nella fase che si apre i contenuti tornano al centro della scena, anche l’antiberlusconismo acquista meno importanza e le logiche di schieramento vanno in secondo piano. In questa prospettiva la strategia dell’attuale “sinistra del centrosinistra” vive un paradosso e una contraddizione al limite dell’impasse. Se da un lato può beneficiare della nuova domanda politica, il suo vincolo con lo schieramento di centrosinistra ne imbriglia le potenzialità alternative. Non si può promettere un cambio radicale della politica economica, ambientale, internazionale e poi mediarla con il Pd o, addirittura, con l’Udc. Al carro del “nuovo Ulivo” la sinistra non può far altro che ripetere gli errori del passato. E non è un caso se la vittoria referendaria abbia illuminato Bersani e Di Pietro più che Vendola o la Federazione della sinistra. Queste fibrillazioni del quadro politico avvengono mentre entriamo in una seconda fase della crisi economica. La pubblicizzazione del debito privato non ha infatti prodotto alcuna uscita dalla crisi, ma riproduce esattamente il sistema che l’ha prodotta; nessuna regolazione finanziaria è stata raggiunta, anche perché la finanza non può essere regolamentata dato il suo ruolo di risposta alla crisi del saggio di profitto. ). La manovra da 45 miliardi che si annuncia sarà l’ennesima occasione per spostare reddito verso i profitti e attaccare le condizioni di lavoro di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori – come sta avvenendo in tutta Europa con i piani di austerità. Una manovra che si accompagna a diversi elementi che completano questo attacco: i tagli al welfare e i progetti Carfagna/Sacconi che prospettano un ulteriore colpo al lavoro delle donne (aumentando disoccupazione e precarietà in particolare nel pubblico impiego) e un progressivo progetto di rilancio del ruolo della famiglia come “ammortizzatore sociale” e delle donne come oggetto di questo progetto; la prossima firma dell’accordo tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil su rappresentanza e contrattazione che ridurrà sempre più il potere e i diritti di lavoratrici e lavoratori nei luoghi di lavoro,senza una vera rappresentanza e il riconoscimento dell’ultima parola sugli accordi; la stretta razzista contro le/i migranti, ancora costretti alla vergogna del “contratto di soggiorno” e ad una vita di clandestinità (anche lavorativa)
Più interessante la dinamica di movimento che in questi mesi si è espressa e che potrebbe segnare la fase politica ancora nel prossimo futuro. Oltre al successo referendario – con i suoi contenuti avanzati – si affacciano in fasi diverse, senza incontrasi e provare a darsi percorsi comuni, mobilitazioni di lavoratrici e lavoratori precarie, resistenze operaie (in particolare nel settore metalmeccanico, dove il rullo compressore di Marchionne continua ad avanzare), iniziative delle/dei migranti per conquistare dignità e diritti, ripresa dell’iniziativa femminista e della soggettività Lgbt. Una ripresa di mobilitazione delle giovani generazioni (in particolare) –che non sposano più l’ideologia liberista – quella del “pubblico è bello”, della “società della conoscenza”, della mobilità legata alla flessibilità, dell’essere padroni di se stessi e così via (anche perché negli ultimi anni la maggioranza dei lavori che si sono creati sono a bassa professionalità). Allo stesso tempo si deve rilevare che prosegue il deterioramento dei rapporti di forza all’interno dei luoghi di lavoro, dove lavoratrici e lavoratori sono sempre più isolate/i e senza una forte capacità di andare oltre la resistenza – quando almeno questa riesce a organizzarsi. Questa dinamica in Italia non ha prodotto ancora nulla di paragonabile alle piazze spagnole o alla resistenza e protesta greche e i tentativi di ricomposizione (16 ottobre nel passato, proposte per un appuntamento delle opposizioni sociali la scorsa primavera) sono stati insufficienti e inefficaci. Non c’è rapporto diretto tra quanto si mobilita e la produzione di conflitto sociale, anche per il peso delle burocrazie e perché le soggettività che si sono espresso sono spesso ancora subalterne a quegli apparati e alle loro ideologie – persino aree “antagoniste” che continuano a guardare al centrosinistra come orizzonte che possa produrre un cambiamento. Le stesse piazze italiane degli “indignati” non hanno per il momento funzionato, anche perché sono state spesso una forzatura politica – perché gli indignati italiani sono mossi soprattutto sui temi del quadro politico, mentre in Spagna hanno messo al centro le questioni del lavoro e delle politiche per il lavoro. Ipotesi politiciste di rimescolamento, ricomposizione, riaggregazione a sinistra sono oggi improbabili – anche se rimangono in qualche misura necessarie: in primo piano sembra tornare la Politica fatta di idee e progetti, da un lato, e di gambe solide, protagonismo e soggettività, dall’altro. La domanda del referendum più esplicita, infatti, è quella di una maggiore democrazia diretta. Questo aspetto non va sottovalutato perché è il filo conduttore che unisce Piazza Tahrir, Puerta del Sol, piazza Syntagma, e il referendum in Italia. Allo stesso tempo dobbiamo vedere che questa partecipazione si coniuga con una delega – non ai partiti come soggetto collettivo – ma a figure “rappresentative”; la partecipazione è quindi a ondate, non permanente. Rimane un attivismo “di avanguardia” fuori dai partiti e anche nuova rispetto al usuale “ceto politico di movimento” del dopo-Genova.
Elemento di preoccupazione è invece la quasi totale assenza di un’iniziativa contro la guerra italiana in Libia e a sostegno delle rivoluzioni del Mediterraneo. Il movimento contro la guerra è fermo, bloccato dalle divisioni provocate dalla campagna sull’intervento “umanitario”, dall’incapacità di comprendere cosa davvero sta avvenendo con le rivoluzioni arabe e dalla sconfitta seguita agli anni 2007/2008 (nella quale grandi responsabilità ha avuto la “sinistra di governo” che ha approvato le missioni militari per garantire la continuità del governo Prodi…). Noi ribadiamo il nostro no all’intervento militare della Nato in Libia, che si propone di rilanciare una presenza e un controllo diretti nell’area e che ha già prodotto la fine di qualsiasi esperienza rivoluzionaria (cooptando la dirigenza di Bengasi nelle politiche europee liberiste e contro i migranti). Siamo a fianco delle popolazioni che si rivoltano contro i regimi reazionari e dittatoriali e cercheremo di organizzare l’iniziativa possibile di sostegno e di amplificazione di queste rivolte.
Rispetto al merito della partita dei beni comuni, dobbiamo essere coscienti che la ripubblicizzazione dei servizi locali è tutta da conquistare, soprattutto nelle vertenze locali (dove le società “partecipate” sono funzionali ai giochi di potere anche a sinistra). I comitati potranno avere un ruolo importante proprio se diventeranno soggetto di vertenze locali, in rapporto con i lavoratori delle società di servizi e i lavoratori del pubblico impiego. Sinistra Critica – che ha speso molte energie nella campagna di raccolta firme prima e per la vittoria referendaria dopo, sia all’interno dei comitati, che autonomamente - è impegnata per lo sviluppo dei comitati in questa direzione e per un loro allargamento della battaglia ecologista incontrando la difesa ambientale e territoriale di altre lotte – non nella forma politicista della “costituente dei beni comuni”, ma attraverso la costruzione di relazioni concrete che rispettino i tempi dei diversi movimenti. Parteciperemo all’assemblea dei comitati del 2/3 luglio con questo impegno e con l’obiettivo di un’agenda di campagne e mobilitazioni dei comitati stessi. In questi giorni siamo a fianco della lotta delle popolazioni della Val di Susa di fronte all’annunciato intervento repressivo diretto a rispondere alle esigenze del capitale europeo e accelerare la costruzione di questa inutile “grande opera”
La democrazia che viene rivendicata è comunque l’elemento su cui investire per fondare una stagione dei movimenti assolutamente indipendenti dalla politica istituzionale, esterni a quella, autodeterminati. Una fase extraparlamentare positiva e innovativa, capace di discutere anche di un sistema alternativo. Se la “rivoluzione è possibile”, vogliamo cominciare a discutere di cosa voglia dire davvero questo slogan e di cosa ha bisogno per realizzarsi; comitati, assemblee democratiche, reti di base, un utilizzo consapevole della rete telematica. Autorganizzazione, autogestione, autogoverno costituiscono le prime risposte che occorre dare al nuovo protagonismo sociale. Rimane il centro del nostro progetto e della nostra scommessa, che si basa sull’esigenza storica del consolidamento di una sinistra anticapitalista come strumento necessario di una rivoluzione altrettanto necessaria.
Campagna centrale per noi nell’autunno sarà quella contro la manovra economica e la politica padronale/governativa diretta a far pagare la crisi a lavoratrici e lavoratori (siano essi precari/e o in via di precarizzazione), alle donne, alle/ai giovani e alle/ai migranti – nella prospettiva di una vera mobilitazione delle opposizioni sociali – anche attraverso la pratica dello “sciopero precario”, proposta da costruire concretamente - e costruendo la partecipazione alla mobilitazione di novembre contro il G20 a Cannes. Una campagna che ponga il contenuto netto del rifiuto di pagare il debito delle banche e che abbia proposte programmatiche per la difesa e il rilancio delle spese sociali, soprattutto attraverso l’abbattimento delle spese militari.
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